Vincenzo Sangiorgio – Cinemavvenire.it

Vecchie
Questi fantasmi
mercoledì 25 settembre 2002
di Vincenzo Sangiorgio

Due donne di sessant’anni sono in vacanza, e appena alzate parlano tra di loro. Sono vecchie, ma ancora non se ne sono del tutto rese conto.
Dei vecchi non gliene frega niente a nessuno, ed è giusto così. Fino a quando sono esistite le società pre-industriali, infatti, o ancora nella profonda provincia italiana del secolo scorso, le figure del pater familias o della matrona non soltanto avevano dignità di esistenza, ma erano punti nodali della sopravvivenza di una comunità, visto che erano loro a decidere sul da farsi (a livello particolare attraverso l’istituzione della famiglia e a livello generale attraverso l’istituzione pubblica) perché erano le persone più adatte a farlo: il prestigio che li contraddistingueva era, infatti, costruito sulla saggezza accumulata negli anni con l’esperienza sul campo. Poi, venne l’era industriale, e oggi l’era digitale: se l’esperienza valida non è più quella costruita nei decenni, ma quella giornaliera della formazione continua, il rispetto per la persona di un’altra epoca si trasforma in disprezzo giustificato, non soltanto perché le persone over 70 sono economicamente (e quindi socialmente e, finanche, moralmente) inutili, in quanto improduttive o comunque prive della totale efficienza necessaria alla crescita, ma anche perché rappresentano un pesante fardello, che spesso si trasforma in fastidio proprio perché senza possibilità di soluzione da parte di chi se ne deve fare carico. Insomma: dove lo metto il nonno sdentato?
Bisogna dire, però, che Vecchie di Daniele Segre non ospita due scheletri pronti per l’estrema unzione, ma “solo” due donne che si stanno velocemente avvicinando a questa condizione, con tutte le (giustificate) paure, ansie e necessità di una nuova storia, che si intrecciano alle vecchie abitudini e ai movimenti già vissuti che stanno per essere rapidamente cancellati. E’ il corpo che cambia e sembra dover crollare da un momento all’altro il centro della questione, la vera novità (?) su cui modellare nuovi atteggiamenti e nuovi sguardi, ed anche su cui rivivere per le ultime volte i ricordi passati, le emozioni e i piaceri lontani, ma ancora visibili, segnati sulla pelle di ognuno; o forse invece un supporto da ignorare, per qualcuno che non vuole capire di aver passato la soglia, e che si ritiene ancora capace di smanettare in pista come se non fosse successo nulla.
La scelta di Segre si struttura, però, originalmente proprio nella scelta di un veicolo diverso dal solito affidamento all’indagine sul corpo nudo: andando al di là dell’abusato approccio “anatomico”, il regista torinese raggruma la fatica di dover diventare qualcos’altro proprio nella parola incrociata del dialogo, modellando il passaggio all’era pensionabile attraverso un supporto su cui le due donne si appoggiano sicure, l’una sull’altra, proprio per raggiungere la nuova dolorosa consapevolezza. Anche in questa attenzione speciale alla sceneggiatura Vecchie sembra un film di fiction, ma questa categoria risulta limitante se si considera la capacità di Segre di rimanere comunque pesantemente sulla realtà delle cose, fisso sulle due protagoniste, consapevole che l’azione è in ogni caso viva nel racconto delle esistenze passate, nello scontro tra le due amiche-confidenti, persino nel gioco con fuoricampo finto-teatrale, con cui si vuole dare fiato allo spettatore dopo confessioni senza sosta; a cavallo tra sperimentazione visiva e pamphlet politico, in una delle più pericolose zone di confine che caratterizzano la nostra vita, uno dei migliori prodotti italiani alla 59esima Mostra ci lascia un felice amaro in bocca, e ci segnala, senza inutili piagnistei, che, in attesa di tagli totali alle pensioni e di eliminazione fisiche per i rei di vecchiaia, già in questo mondo c’è un’era popolata di fantasmi.